Quando all inizio di quest anno i giornali riportarono la notizia di un ragazzo escluso da una squadra di calcio perché, per cause non chiare, non era troppo bravo per giocare le partite, mi venne spontaneo esprimermi pubblicamente con una frase che ha destato alquanto clamore: «Sogno una squadra di fantastiche schiappe». Un Vescovo che entra su certi argomenti, diciamo così “a gamba tesa”, per restare in tema, non è troppo comune, ma in quel momento mi sembrò utile dare un segnale forte di come fosse necessario riportare lo sport alla sua natura originaria.
Fare questa operazione di ritorno alle origini del significato del fare sport è sicuramente necessario anche oggi, a mesi di distanza da quell’episodio, perché purtroppo fatti del genere continuano ad accadere e non tutti concepiscono lo sport come dovrebbe invece essere: lo sport è uno strumento educativo innanzitutto e di conseguenza fare sport è un diritto di tutti! Lo sport è divertimento, ma anche educazione alle regole, alla disciplina, al rispetto del proprio corpo, al sacrificio per raggiungere risultati, allo spirito di squadra che ci fa sentire uniti verso un traguardo.
La fatica dello sportivo è anche un antidoto contro i virus di una società che ti spinge a restare chiuso in casa, magari davanti ad un computer, oppure a trovare “scorciatoie” per arrivare in alto nella vita. In questo senso mi piacerebbe rilanciare la proposta Csi e far decollare progetti di oratori in città. Penso soprattutto a quei ragazzi che rischiano di restare tagliati fuori dallo sport, perché non possono permetterselo, perché ormai anche fare sport è diventato un lusso, oppure perché non hanno le “capacità”, così come le intendono certi “allenatori” che dell’allenatore hanno davvero poco, o perché mancano dell’interesse a dedicarsi allo sport in maniera agonistica, come invece viene richiesto oggi. Capisco le esigenze di chi ha talento e vuol mettersi alla prova, di chi è giusto che arrivi dove deve arrivare, ma perché non dare la possibilità di divertirsi anche a chi vuol solo tirare due calci ad un pallone, o fare canestro (tanto per non parlare solo di calcio), magari con indosso una maglietta colorata che lo fa sentire parte di una squadra?
Occorre creare una rete attraverso le parrocchie per evitare che dai 14 anni in poi (purtroppo episodi di discriminazione accadono anche prima di questa età) venga di fatto espulso dal “sistema sportivo” chi non è adatto o interessato alla competizione. Perché tante volte il problema non è dove giocare o quanto giocare, ma è rendere i ragazzi felici, è aiutarli a crescere nella vita. Ma in questo progetto dovranno essere immancabilmente coinvolte le famiglie, perché l’educazione inizia in casa, inizia da mamma e papà, sono loro che “portano” i ragazzi allo sport, sono loro i loro primi tifosi, e sono loro che per primi devono comunicare che fare sport significa innanzitutto divertirsi e crescere bene e non diventare campioni pieni di soldi.
Simone Giusti
Vescovo di Livorno
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